sabato, Maggio 11, 2024
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Lo scheletro nell’armadio

di Paola Cosmacini

Riprendiamo il problema legato alla esposizione nei musei dei resti umani, mummificati o scheletrici che siano. Esso è infatti tutt’ora causa della costante incertezza dei curatori, divisi tra esporre nelle sale oppure riporre in magazzino ciò che viene definito «archivio biologico» e cioè i resti umani oggetto di studio della paleopatologia e, per estensione, della storia della patologia umana.

Noi radiologi siamo coinvolti poiché l’esame TC delle mummie permette di contribuire a disvelare il passato. Il “la” lo diede un italiano, Mario Bertolotti nel 1913. Quell’anno pubblicò i risultati di un esame radiografico da egli stesso eseguito alla Salpêtrière per verificare la eventuale presenza di gioielli nascosti tra il bendaggio di una mummia egizia della XI dinastia e che, invece, evidenziò un vizio di differenziazione regionale della colonna vertebrale, così «segnando l’inizio della paleoradiologia nello studio dei resti mummificati». Oggi, con l’Horus study abbiamo avuto anche dimostrazione che si può gettar luce sulla eziopatogenesi di malattie mai scomparse. E c’è chi inizia a sostenerne che una mummy medicine potrebbe un giorno influenzare anche le nostre scelte terapeutiche.

Le mummie furono considerate oggetti di ricerca a cominciare dalla importante svolta data da Augustus Bozzi Granville alla Royal Society di Londra nel 1825 (Figg. 1 e 2).

Figg. 1-2: Immagini tratte da A. Bozzi Granville, An Essay on Egyptian Mummies; with Observations on the Art of Embalming Among the Ancient Egyptians, in «Philosophical Transactions of the Royal Society of London» 1825, 115: 269-316. 

Dopo avere tenuto in casa propria, e per parecchio tempo, una mummia proveniente dall’antica Tebe, la sezionò così minutamente fino a farla sparire: fu la prima autopsia eseguita su una mummia. Da noi scheletri, mummie e ossa considerati “intoccabili”, ma al contempo esposti al pubblico da sempre, sono quelli delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, di San Bernardino alle Ossa a Milano e del Convento dei Frati Minori Cappuccini a Roma.

In un precedente articolo cercai di rispondere a due domande: «ma che diritto si ha di indagare con disinvoltura su questo archivio proprio come se si trattasse di un archivio fossile, se non addirittura cartaceo? Fino a che punto è lecito disturbare questi resti umani nel loro sonno eterno?». Oggi ne aggiungo altre due: «il corpo è considerato un semplice involucro dell’anima che, dopo il trapasso, perde ogni importanza? Fino a quando esso ci appartiene?».

Per rispondere, alla conferenza internazionale Human remains. Ethics, Conservation, Display, che ha fatto incontrare a Pompei e Napoli (20-21 maggio 2019) specialisti italiani e internazionali per una riflessione sui resti umani come materiale sensibile, ha subito fatto seguito il Museo Egizio di Torino che ha organizzato il secondo atto della conferenza (30 settembre – 1° ottobre 2019). Dai calchi di Pompei alle mummie egizie, archeologi e  egittologi, antropologi, restauratori, sociologi, curatori e operatori di musei e, ovviamente, anche medici (e in primis il medico legale, il paleopatologo e il radiologo) hanno affrontato il problema della conservazione e della visualizzazione dei resti umani, consapevoli del fatto che una varietà di “strategie espositive” sono già state adottate da diverse istituzioni e che certamente non esiste una risposta unica alla questione dell’accettabilità o meno della esposizione umana.

Il “dilemma morale” imbriglia gli studi in “linee guida” dai risvolti etici per sottolineare l’esistenza della persona contestualmente alla presenza del suo simulacro: il reperto archeologico, l’oggetto, ritorna a essere soggetto: una questione etica di primaria importanza nelle moderne scienze biomediche. Pertanto, in questo discorso, sono coinvolti anche i giuristi perché per sapere se il corpo ha ancora dei diritti, e se tali diritti vengono considerati di minore importanza rispetto al valore scientifico che racchiude, esistono riferimenti e codici di comportamento internazionali, a partire proprio dall’art. 4.3 del codice etico ICOM: «Exhibition of Sensitive Materials Human remains and materials of sacred significance must be displayed in a manner consistent with professional standards and, where known, taking into account the interests and beliefs of members of the community, ethnic or religious groups from whom the objects originated. They must be presented with great tact and respect for the feelings of human dignity held by all peoples».

Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, si chiede (retoricamente?) se sottrarre i resti umani alla visione pubblica sia la soluzione migliore e se porre tali reperti e sigillarli dentro una scatola e riporli all’interno di un magazzino rappresenti una dimostrazione di rispetto. Lo “scheletro nell’armadio” è davvero la migliore soluzione?

Già anni fa, l’antropologa australiana Jasmine Day, citando un noto passo dell’Amleto, invitava a riflettere sulla ragionevolezza dei nostri giudizi e concludeva che «la soluzione è una combinazione di pubblica educazione sulla morte, sul corpo, sulle differenze culturali e un ripensamento dei problemi da parte dei curatori per produrre esposizioni che coltivino efficacemente nei visitatori un senso di rispetto per gli antichi Egizi». E per parte sua l’Istituto di Medicina Evoluzionistica (IEM) di Zurigo aveva risolto il problema internamente dandosi un codice etico e poi proponendo, per una discussione futura, una bozza di «ethical standards» comuni per la ricerca; in questo discorso rientravano, per esempio, gli eventuali problemi derivanti da nuove metodologie diagnostiche, caratterizzate da un diverso livello di invasività.

Il caso delle mummie egizie è però effettivamente un problema a parte. Non va sottostimato infatti che entrare nelle sale delle mummie dei più grandi musei egizi può scatenare profonde sensazioni e innescare riflessioni sulla nostra esistenza per coloro che non hanno la fortuna di ritrovarsi sui siti archeologici al momento della scoperta. E ciò non da oggi: «La testa sembrava addormentata più che morta; le palpebre, ancora frangiate dalle loro lunghe ciglia, facevano brillare tra linee d’antimonio gli occhi di smalto […] Che sensazione strana! Trovarsi di fronte a un essere umano che viveva alle epoche dove la Storia balbettava appena […] toccare questa piccola mano dolce e impregnata di profumi che forse un Faraone aveva baciato», rifletteva a bordo di una cangia il protagonista di uno dei racconti che hanno fatto la storia della letteratura. E nella realtà le cose non andavano diversamente se, qualche anno dopo la pubblicazione di queste parole, alla avvenuta scoperta della tomba KV46 nel 1906 gli archeologici annotavano sul diario di scavo: «Le lampade elettriche furono tenute prima sopra Yuaa e poi sopra sua moglie, e mentre guardavamo i loro volti  tranquilli (da cui erano state tolte le bende da qualche antico rapinatore), c’era quasi la sensazione che presto avrebbero aperto gli occhi e sbattuto le palpebre».

E dunque, come esporle e come, magari, poter interagire con alcune di loro?

A Torino, in The analysis and storage of mummified human remains, ethical considerations and a British Museum perspective, Daniel Antoine, curatore della sezione di Bioarchaeology e responsabile per la parte di human remains della sezione egizia del British, ha risposto a questa domanda mostrando la loro ultima strategia espositiva. Con la Association for Computing Machinery, gli archeologi hanno lavorato in modo proficuo: dopo avere virtualmente sezionato con scansioni TC multi-planari e poi ricostruito in un unico volume il corpo di una mummia, i ricercatori hanno installato una piattaforma di “visualizzazione interattiva” che consente ai visitatori del Museo di esaminare l’intero volume corporeo e di eseguire, in fasi successive e con opportuni software, l’analisi dettagliata della mummia mediante una lama autoptica virtuale. Non è solo un sofisticato esempio di come può essere fatto un lavoro di analisi sui resti umani, ma è anche una novità didattica tanto che il video sulla medicina egizia installato nel Museo di storia della medicina della Sapienza si chiude proprio con alcune immagini di questo studio (Fig. 3).

Fig. 3: Dal video (a cura di A. Aruta, G. Corbellini e P. Cosmacini), della Sezione egizia del Museo di Storia della Medicina dell’Università di Roma “La Sapienza”.

Ma il problema, oggettivamente complesso, rimane aperto.

L’arte può talvolta aiutare cogliendo la complessità della questione e presentandola in modo efficace, unico, spesso anche poetico. E dunque qui mi sia permesso ricordare – a mo’ di spunto di riflessione – che nel racconto Some Words with a Mummy di Poe è proprio una mummia egizia a farci riflettere sul senso della vita, e a spiegarci come l’imbalsamazione sia solamente la sospensione delle attività vitali, e che alla fine della avventura di una nota bande dessinée le mummie del Louvre, disturbate nel loro sonno eterno e dunque risvegliate nel nostro mondo, decidono di lasciare il Museo… e di tornarsene in Egitto!

Per saperne di più:

K. Squires, D. Errickson, N. Márquez-Grant (eds.), Ethical Approaches to Human Remains. A Global Challenge in Bioarchaeology and Forensic Anthropology, Springer Nature Switzerland AG 2019

S. Cavicchioli, L. Provero (eds.), Public Uses of Human Remains and Relics in History, Routledge, New York-London 2020

Didascalie Figure

Figg. 1 e 2

Immagini tratte da A. Bozzi Granville, An Essay on Egyptian Mummies; with Observations on the Art of Embalming Among the Ancient Egyptians, in «Philosophical Transactions of the Royal Society of London» 1825, 115: 269-316. 

Fig. 3

Dal video (a cura di A. Aruta, G. Corbellini e P. Cosmacini), della Sezione egizia del Museo di Storia della Medicina dell’Università di Roma “La Sapienza”.

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