di Francesco Lucà
A seguito dell’esito positivo del referendum costituzionale svoltosi il 3/08/01, è entrata definitivamente in vigore la Legge Costituzionale 18 ottobre 2001 n.3, pubblicata in G.U. n. 248 il 24/10/01.
La potestà legislativa viene classificata all’art. 3 del nuovo art. 117, distinta in due
categorie: “Concorrente” ed “Esclusiva”
Esclusiva Statale: potestà da esercitarsi in una serie di settori di marcato rilievo politico-istituzionale nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato: politica estera, cittadinanza, difesa, sistema finanziario, sistema elettorale, amministrazione statale, ordine pubblico, giustizia, Lea, norme generali sull’istruzione, previdenza sociale, ambiente.
Concorrente: sicurezza del lavoro, istruzione, professioni, tutela della salute, alimentazione, protezione civile, governo del territorio, comunicazioni intese anche come mobilità, previdenza complementare, energia, beni culturali.
«Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa
salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione
dello Stato»
STATO REGIONI
Definisce i Lea Organizzano il SSR
Garantisce le risorse economiche necessarie, Garantiscono le prestazioni compatibili con i vincoli della finanza pubblica.
Questa volta non farò riferimento esplicito su norme entrate in vigore nell’ultimo periodo ma voglio analizzare alcune notizie che messe insieme sembrano alquanto significative per capire quali siano i mali della sanità italiana e di conseguenza gli eventuali rimedi. Incomincerò con una sentenza che ha riportato alla ribalta un problema mai accantonato. Mi riferisco alla revisione del Titolo V parte II della Costituzione, che ho schematizzato nella parte precedente. Chi lavora in sanità non può non rendersi conto che la legislazione concorrente e la delega alle Regioni sulla sanità sia una delle più grandi iatture e l’attuale situazione pandemica ne è una ulteriore riprova. La sentenza che mi ha fatto ripensare a tale problema è quella con cui la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 4 del 14 gennaio 2021, ha ritenuto lesiva dei principi costituzionali ogni legge regionale che metta a rischio la salute delle persone e l’interesse pubblico ad una gestione unitaria a livello nazionale della pandemia. La Suprema Corte ha deciso per la prima volta la sospensione dell’efficacia della legge regionale impugnata, legge della Valle d’Aosta, per il suo potenziale pregiudizio applicativo tale da rappresentare un rischio grave ed irreparabile per i cittadini. Un monito alle Regioni a legiferare in armonia con le competenze esclusive dello Stato.
Se a questa problematica aggiungiamo che, come afferma la Fondazione Bridge, negli ultimi 10 anni si sono perse strutture, posti letto e personale, ci rendiamo conto che la gestione della sanità demandata alle Regioni non ha risposto alle esigenze del Paese. Anche l’Annuario del SSN del 2018, appena pubblicato conferma tali dati.
Nel pubblico sono state perse il 5,2% delle strutture mentre il privato cresce del 7,2.
Negli ospedali, meno personale con il settore pubblico che perde terreno a scapito del privato che avanza. È la fotografia che emerge confrontando i numeri del Ssn tra il 2013 e il 2018. In cinque anni, dal 2013 al 2018, il Servizio sanitario nazionale ha perso 74 strutture di ricovero (45 pubbliche e 29 private), 413 strutture di specialistica ambulatoriale (316 nel pubblico e 97 nel privato). Nel settore dell’assistenza territoriale residenziale le strutture pubbliche si sono ridotte di 159 unità, mentre quelle private sono aumentate di 837.
Ma l’emorragia del Ssn non si ferma qui. I posti letto ospedalieri tra pubblico e privato tra il 2013 e il 2018 sono scesi di 13.457 (di cui 10 mila solo nel pubblico). In calo anche il personale dove si registrano 22.246 unità in meno.
Nel 2018 l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.059 istituti di cura, di cui il 48,6% pubblici ed il rimanente 51,4% privati accreditati. Il 63,5% delle strutture pubbliche è costituito da ospedali direttamente gestiti dalle Aziende Sanitarie Locali, il 10,3% da Aziende Ospedaliere, ed il restante 26,2% dalle altre tipologie di ospedali pubblici. Il S.S.N. dispone di circa 190 mila posti letto per degenza ordinaria, di cui il 21,4% nelle strutture private accreditate, 12.541 posti per day hospital, quasi totalmente pubblici (89,2%) e di 8.510 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (77,5%). A livello nazionale sono disponibili 3,5 posti letto ogni 1.000 abitanti, in particolare i posti letto dedicati all’attività per acuti sono 2,9 ogni 1.000 abitanti.
Il personale dipendente del SSN è costituito dal personale delle Aziende Sanitarie Locali, compreso quello degli istituti di cura a gestione diretta, dal personale delle Aziende Ospedaliere, Aziende Ospedaliere integrate con il Servizio Sanitario Nazionale e dal personale delle Aziende Ospedaliere integrate con l’Università.
Nel 2018 tale personale ammonta a 604.104 unità e risulta così ripartito: il 72,0% ruolo sanitario, il 17,4% ruolo tecnico, il 10,4% ruolo amministrativo e lo 0,2% ruolo professionale. Nell’ambito del ruolo sanitario, il personale medico è costituito da 101.876 unità e quello infermieristico da 253.819 unità. Nelle strutture di ricovero pubbliche ed equiparate operano 94.464 medici e 236.756 unità di personale infermieristico. La tendenza è sempre orientata verso una significativa e costante riduzione: dal 2007 al 2019 il personale negli ospedali pubblici è diminuito del -7%, i medici del -6% (con un rapporto medici del SSN/1.000 abitanti passato dal 19,1 al 17,6), gli infermieri del -5% (con un rapporto infermieri del Ssn/1.000 abitanti passato da 46,9 a 44,3). Una riduzione da addebitarsi principalmente alle misure di contenimento della spesa previste con la Legge 191/2009, sbloccate solo nel 2019, e al cosiddetto blocco del turnover definito con la legge n. 296 del 2006.
L’analisi evidenzia come nel nostro Paese si è passati dai 12 posti letto per 1000 abitanti nel 1969 ai 3,5 attuali. Inoltre, il valore del finanziamento ordinario dello Stato al Ssn in rapporto al Pil dal 2010 è in continuo calo, con una percentuale di spesa sanitaria prevista per il 2021 intorno al 6,3%, rispetto al 6,8% del 2014. Un dato allarmante, soprattutto se raffrontato ad altri Paesi Europei come Francia e Germania, dove l’investimento di fondi pubblici destinati alla sanità supera i 2.850
euro pro-capite a fronte dei soli 1.844 euro dell’Italia (fonte Istat 2016).
Altro fattore importante rilevato è che negli ultimi anni le borse di specializzazione sono risultate inferiori al numero dei laureati chiamati ad accedervi. Solo nel 2019, con 8.000 borse con finanziamento statale e 8.776 borse totali, il numero di posti è stato superiore al fabbisogno indicato.
Quanto al cosiddetto “imbuto formativo”, questo nel 2018 coinvolgeva 8.090 medici. Ipotizzando che tra il 2018 e il 2025, dei circa 105.000 medici specialisti attualmente impiegati nella sanità pubblica, ne potrebbero andare in pensione la metà (52.500), per il 2025 si prevede una importante carenza di circa 16.500 specialisti.
Come detto dal 16° Rapporto Sanità del Crea “La pandemia ha reso palese la mancanza di vision del sistema salute italiano e la sua incapacità di rinnovarsi.”