domenica, Aprile 28, 2024
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Dall’infinitamente piccolo la consapevolezza della nostra fragilità

Gabriele Gasparini

La primavera del 2020 non la scorderemo facilmente. Rispetto a molte altre notizie che emergono nella vita di chi lavora in ospedale questa volta la notizia dell’esistenza dell’epidemia nei nostri nosocomi non è iniziata come “voce di corridoio”.

Brutalmente i media, con una velocità che si avvicina al tempo immediato, ci hanno urlato l’arrivo del contagio. Contagio temuto ma fino a quel momento ritenuto lontano. In un mondo in cui la tecnologia ci permette di superare i nostri limiti fisici in quasi ogni azione della nostra vita, in quasi ogni pensiero che si affaccia alla nostra mente, pensavamo che un essere invisibile da cui origina una paura atavica come quella del contagio potesse seguire ritmi e tempi squisitamente animali, “naturali”, atecnologici. Come se la nostra azione non cambiasse il mondo che ci ospita. Pensavamo al virus come entità nascosta nel verde profondo di una giungla lontana, credevamo che una volta disturbato potesse colpire solo chi aveva osato scovarlo.

Ci siamo resi conto che anche questo nuovo virus involontariamente (anche se dubito abbia una volontà, perlomeno intesa come noi la intendiamo) utilizza non solo noi, come è naturale che sia, ma anche la nostra tecnologia. Arriva a muoversi alla velocità massima di un jet. Non male per un esserino senza gambe.

In realtà qualche dubbio sul fatto che questa epidemia localizzata in un paese lontano non potesse seguire le fortunate sorti della SARS CoV del 2002 (8.096 casi, 774 decessi in 17 paesi) qualcuno l’aveva. E così un venerdì sera di fine febbraio all’emergere reale nel Belpaese di questo nuovo CoV c’è stata una immediata risposta materializzata dalla chiusura di un ospedale con all’interno malati e personale e dall’isolamento garantito dalla forza pubblica di una quindicina di Comuni.

Alle immagini in TV, alle notizie sui social (che hanno lo stesso effetto di un messaggio di un pari età nell’adolescenza) seguivano le telefonate e i contatti con i Colleghi prigionieri che faticavano a realizzare sia di vivere un incubo che di aver perso la libertà.

Come medico e come sindacalista mi sono trovato a dover rispondere a queste persone. Era stato superato un confine. Si era passati dal nostro ordinario già difficilmente sostenibile, ad un nuovo, sconosciuto, straordinario. L’eccezionalità del momento richiedeva che fossero scelte parole, frasi che potevano riflettersi nell’immediato in un peggioramento della situazione e nel tempo nel determinare la vita o la morte di persone. La risposta immediata che ho dato è stata la più scontata: segui le indicazioni delle autorità. Leggerla così in queste righe fa un po’ ridere, sembra una risposta ovvia. Ma se ci guardiamo alle spalle in questi giorni di epidemia ora divenuta pandemia, con questo mese di esperienza vissuta nella nuova realtà, ci rendiamo conto che questa indicazione che prendeva vita nei primi minuti di questa emergenza, non è stata seguita dalla maggioranza delle persone del nostro Paese con tutti gli effetti che abbiamo sotto gli occhi e nella nostra mente.

Il giorno successivo in ospedale il personale era incredulo e già iniziava ad avere paura. In una città come Venezia quarantena ed isolamento sono di casa da secoli.

La lontananza dal contagio in terra asiatica si era notevolmente ridotta e già dopo poche ore nuove notizie segnalavano un ulteriore riduzione di questa distanza, il virus era sempre di più nei nostri ospedali. Il cerchio si restringeva con la conseguenza dell’esplosione delle famose voci di corridoio. Non erano belle voci e come sempre erano per lo più infondate e prevalentemente contribuivano non poco a minare l’umore del personale. In una fase iniziale c’era il tempo per alimentarle, la drammatica realtà le ha fatte sparire. Drammatica realtà che ha superato la fantasia.

Dopo un weekend in ospedale passato a rassicurare il personale mi chiedevo cosa ci si sarebbe aspettato l’indomani, il lunedì. La risposta a questa mia domanda non si è fatta attendere ed immediatamente, in questa nuova era Covid19, sono iniziate un numero notevole di riunioni a tutti i livelli. Anche le OOSS sono state interessate da subito con incontri pomeridiani che ininterrottamente durano ancora (e siamo a un mese dall’inizio della pandemia). Incontri congiunti fra dirigenti e comparto, il virus non infetta in base al contratto di lavoro. Non so se sarà una perdita di tempo e per quanto tempo ci potremmo permettere queste riunioni, so che la partecipazione è massima e che qualche problema lo abbiamo risolto. Ma resta ancora molto da fare.

Simultaneamente sono iniziati a scoppiare i conflitti che nel luogo di lavoro, come si sa, sono alimentati prevalentemente dai pregiudizi. Ma una cosa è emersa molto presto: potremmo uscire da questo dramma se tutti fanno la loro parte e se le scelte saranno adeguate. Oggi, purtroppo, siamo in parte “facilitati” nelle scelte dal gravoso superamento della remora finanziaria. Superamento culminato dalla scelta governativa di estendere a tutt’Italia la zona rossa. Scelta italiana che ha preceduto quella molti altri Paesi. La nostra economia subisce ogni ora un forte colpo ma l’unica cosa che possiamo fare oggi è cercare di risolvere il problema sanitario per poi dedicarci a quello economico. Nulla di nuovo sotto il sole, basta studiare un po’ di storia.

Per far questo occorrono risorse ma occorre anche che la popolazione faccia la sua parte per mantenere il suo stato di salute e non diffondere il contagio.

Aspetto di primaria importanza oltre all’organizzazione sanitaria è la risposta del personale. Non è difficile capire che se il personale si sente tutelato lavora meglio, se si fa squadra ancora di più. Lo so questi concetti sono difficili per alcuni ma più la pandemia si diffonde e più qualsiasi scelta porta a conseguenze irreversibili.

Certe scelte iniziali come “non mettete le mascherine perchè create allarmismo” o “è una banale influenza” oggi drammaticamente e molto amaramente ci fanno ammiccare. Non saranno dimenticate. Gli operatori sanitari non sono eroi perché lavorano in questi tristi giorni, fanno quello che hanno sempre fatto. Sono eroi quando sono costretti a farlo senza le adeguate protezioni.

Le difficoltà iniziali sono maturate in un contesto di emergenza e hanno riguardato ad esempio l’applicazione della definizione di contatto stretto, con l’arrivo in periferia di variabili interpretazioni delle modalità scandite a livello centrale con improbabili intervalli di tempo oscillanti dalle tre ore ai 15 minuti e da distanze espresse in metri fra Paziente e sanitario, o la comunicazione al personale della necessità di assentarsi dal lavoro in quarantena o in isolamento, stati la cui violazione è disciplinata da articoli diversi del Codice Penale (rispettivamente il 650 e il 452). Oppure la difficoltà di armonizzare l’uso dei dispositivi di protezione individuali nel personale con la conseguenza di far nascere ulteriori conflitti.

Il continuo cambiare delle direttive, giustificato dall’evolvere della situazione, ha determinato il nascere di innumerevoli comunicazioni che giornalmente popolano i nostri dispositivi informatici e che in gran parte non vengono letti, capiti e tantomeno seguiti. Una infodemia che trova terreno fertile nella burocrazia che da tanto tempo noi medici additiamo come uno dei nostri principali problemi (molti iniziano a chiamarla buropazzia).

E’ tanto difficile accogliere un documento ministeriale e riproporlo nella scala gerarchica tale e quale, magari ricopiato, ma tale e quale, corto e semplice senza vederlo seppellire da miriadi di altre comunicazioni e senza creare varianti con parole diverse che allungano il brodo? Certo anche le Regioni hanno le loro prerogative che debbono suscitare fatti migliorativi delle disposizioni centrali. Migliorativi per la popolazione si intende.

Il dialogo con i rappresentanti della Regione del Veneto è stato più complicato ed è avvenuto dopo ripetute richieste ufficiali dell’intersindacale. Questo dialogo è continuato in forma di ulteriori richieste ufficiali delle OOSS volte a bloccare l’accesso negli ospedali e nei poliambulatori pubblici e convenzionati dei Pazienti con esami differibili. Blocco richiesto per non diffondere il contagio.

Anche la radiologia è colpita dalla valanga di disposizioni e reagisce con documenti scientifici che la rendono protagonista in questo difficile momento. Spesso però è considerata un “ambulatorio” in una visione arcaica della realtà. Chi ci lavora è esposto al contagio perché è in prima linea e deve essere tutelato. La radiologia è il crocevia dell’ospedale, se il suo personale non è adeguatamente tutelato diviene una delle principali vie di diffusione del contagio con il rischio di trasformare questa malattia in un’epidemia nosocomiale. Individuare ed isolare i sanitari positivi al virus, cercare di mantenere separati i Pazienti infetti, fornire al personale i DPI e comunicare in modo efficace, semplice e comprensibile sono mosse necessarie per non diffondere il contagio.

Non è certo la prima epidemia nel nostro pianeta ma due cose sono certe: è la prima pandemia in un mondo globalizzato in cui le informazioni viaggiano alla velocità della luce; per la maggior parte di noi è una assoluta novità. Gli eventi che si stanno svolgendo ora in certe zone del nord Italia sono più drammatici e gravi rispetto ad altre aree del Paese. Può essere visto come un vantaggio che permette di non ripetere gli stessi errori o può essere solo un’anteprima di quello che vivremo.

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